La Settimana nazionale di aggiornamento “Andò in fretta verso la montagna” sulle parrocchie senza preti
La domanda compresa nel titolo è stata posta da mons. Domenico Sigalini – presidente del Centro di Orientamento Pastorale (COP) – all’inizio della sua relazione conclusiva della 72.ma Settimana nazionale di aggiornamento pastorale – “Andò in fretta verso la montagna” – organizzata dall’associazione a Lucca dal 26-28 giugno, avendo come sottotitolo quello stesso interrogativo.
Una domanda molto impegnativa, che, portata agli estremi, spinge ad un quesito forse ancor più impegnativo, di certo più radicale: se la “parrocchia”, così come è ora, sopravvivrà a questo periodo di crisi, la carenza di sacerdoti renderà la stessa meno dipendente dalla figura del parroco?
Al centro del convegno, la questione di quella conosciuta come “pastorale della montagna”, che riguarda ormai più di un terzo delle parrocchie, poste in zone montuose o collinari, senza più un parroco proprio, che rischiano di scomparire nel giro di una quindicina di anni. Dire che sia urgente una riflessione – a livello ecclesiale ma anche civile – su certi argomenti suona, ormai, come un’affermazione che rischia di rivelarsi già fuori tempo massimo, se è vero che siamo di fronte ad una tendenza già evidenziata da tempo dai numeri sul calo dei sacerdoti e, per stare solo alla nostra realtà, che quello fu uno dei temi trattati nel sinodo diocesano svoltosi dal 2003 al 2006.
Mons. Sigalini non ha cercato di nascondere questa preoccupante situazione, assicurando che “noi vogliamo aiutare [queste piccole realtà] ad essere comunità cristiane che seguono e annunciano Cristo”.
Fin da prima della pandemia, riflettendo sulle parrocchie senza prete, si è compresa la necessità di “cambiare stile di Chiesa e di parrocchia”, dice Sigalini; ma, aggiungiamo noi, guardando alla realtà, ben poco è stato fatto per avviare questo processo. In esse, molte volte, è presente “una bella chiesa che rimane spesso chiusa, sostenuta dalla gente del luogo, ancora molto amata e che non sa più dire il perché della sua presenza”.
Facile pensare ai tanti paesi disseminati su per le colline e i monti della nostra Lunigiana. Ciò stimola altre domande forti: che tipo di comunità cristiana formano le poche famiglie che vi restano? Sono ancora la chiesa del Signore Gesù?
L’analisi, come si diceva, tutto sommato risulta abbastanza facile. Il presidente del Cop cita la pandemia, la crisi economica, la crisi energetica, la guerra in Ucraina. Poi le “difficoltà strutturali”: demografiche, salariali, occupazione giovanile, propensione al risparmio, aumento del debito pubblico.
Perciò, per dirla con Sigalini, “dobbiamo fare in fretta”. Un passo lo deve fare anche la società civile: “Occorre una ‘politica integrata’ unitamente a strumenti di accompagnamento”.
La Chiesa si muove “secondo due ‘coordinate pastorali’: la concentrazione (riunendo le persone e utilizzando tempi e spazi centralizzati) e la prossimità (portando le risorse accanto ad ogni situazione presente sul territorio, spesso con l’effetto di assecondare la dispersione)”.
Guardando al futuro, quanto alla concentrazione, la proposta è quella di ridare “alla Chiesa capacità missionaria e formativa… con una attenzione esplicita al mondo giovanile”. Quanto alla prossimità, “occorrerà istituire nuove forme e figure ministeriali o valorizzare le famiglie come piccole chiese”.
“Il rapporto, specifica il vescovo emerito di Palestrina, tra concentrazione senza forme di potere e prossimità non impigrita in rivalità paesane va studiato bene. È necessario “un progetto, capace di supportare una riforma che deve essere profonda e che guidi le mutazioni, orientando la Chiesa alla missione”.
È quindi tempo “di passare dalla teoria alle scelte concrete, senza rinviare ulteriormente la questione dei ministeri”. Dopo aver scandito in 10 passi il cammino per il discernimento comunitario e la formazione dei ministri istituiti, Sigalini spiega che è necessario raggiungere “la consapevolezza dei fedeli laici come soggetti attivi dell’agire pastorale… uscire da una forma ‘prete centrica’ e addentrarsi in una forma di Chiesa in cui il Popolo di Dio è la comunità che evangelizza”.
Non si può solo accorpare parrocchie e ripensare alcuni incarichi: “si tratta di iniziare un cammino di ripensamento della forma che la Chiesa ha assunto nel corso della storia”. Altrimenti si corre il rischio “di vedere molte delle parrocchie accorpate e ridotte a sole erogatrici di ‘servizi religiosi’ dentro una logica parroco-centrica”.
C’è bisogno di avviare “un’azione pastorale di uomini e di donne che esercitano in comunione i propri specifici carismi”. “Il passaggio dalla logica della conservazione a quella della missione, aggiunge il vescovo, sarà possibile solo grazie all’inserimento di nuovi ministeri”.
Lo stesso “ministero della conduzione pastorale va ripensato in chiave sinodale, superando l’asse individuale parroco-parrocchia. “Queste nuove ministerialità non devono essere immediatamente codificate, ma subito sperimentate e non fatte morire”.
I seminari sono chiamati a formare e sostenere i “futuri preti, anche in parrocchie senza prete residente”. Formando un uomo “capace di ascoltare”; “libero dal ‘si è sempre fatto così’; che si lascia “coinvolgere nella vita del territorio”; persona che accompagna, e non giudica; che sappia celebrare la gioia (non moltiplicando messe, ma preparando e coinvolgendo la comunità)”.
Antonio Ricci