Il presidente “prigioniero” delle incapacità dell’attuale classe politica
In altro articolo offriamo ai lettori una riflessione sulle concitate giornate della settimana scorsa, conclusasi con la conferma di Sergio Mattarella a capo dello Stato; qui cerchiamo di ripercorrere la strada che ha portato a questo risultato. Va ricordato, per prima cosa, che il presidente della Repubblica uscente aveva espresso a più riprese una chiara (e pensiamo anche sincera) volontà di non ripetere la sorte di Napolitano. Bastava la lingua italiana a dargli ragione: se la “proroga” è da considerare un’eccezione, un bis dopo quello di Napolitano sarebbe diventato una nuova regola, non negata ma nemmeno prevista dai padri costituenti. Sembrava che il concetto fosse ben chiaro, eppure…
A Sergio Mattarella 759 voti
Sergio Mattarella è stato rieletto a larghissima maggioranza Presidente della Repubblica. Nel corso dell’ottavo scrutinio il Capo dello Stato in carica ha ottenuto 759 voti, ben oltre il quorum di 505, ma anche molti di più dei 665 ottenuti nel 2015. È il secondo risultato di sempre dopo l’elezione di Sandro Pertini nel 1978, in un’altra temperie storica e politica.
Ma al di là delle statistiche, nell’interesse del Paese conta l’ampiezza del consenso, frutto di un accordo tra le forze che sostengono il governo Draghi. Tra gli altri hanno conseguito risultati a due cifre il candidato di Fratelli d’Italia, Carlo Nordio (90), mentre ne ha avuti 37 Nino Di Matteo.
Queste elezioni per il Quirinale sono state segnate da diverse anomalie. Della prima si è parlato a lungo perché mai si era avuta un’autocandidatura. Berlusconi è riuscito laddove nessuno aveva mai osato, salvo fare la figura del dilettante allo sbaraglio: contestato dagli avversari, ma soprattutto preso in giro – ora si può dire con certezza – dai leader di quel centrodestra che avrebbe dovuto sostenerlo. Di fatto, i grandi elettori sono giunti in aula lunedì 24 senza alcun nome su cui puntare.
Lo dicono i risultati dei primi due scrutini, segnati da centinaia di schede bianche e da voti in libertà. Prima l’ex giudice costituzionale Paolo Maddalena (proposto dagli ex M5s) in testa da solo, poi ex aequo con Mattarella (39 voti: niente di più, si è pensato, di un omaggio di qualche irriducibile) nel secondo.
Il vero teatrino, però, va in scena a partire dalla terza votazione di mercoledì 26 gennaio. Prende sempre più forza la richiesta di puntare su una donna: tutti d’accordo, ma si vedrà più avanti che i nomi fatti saranno bruciati nell’arco di poche ore. Ottiene 52 voti Pier Ferdinando Casini (che nella giornata di venerdì chiederà ufficialmente di essere lasciato fuori dalla mischia), subito cassato da destra e da sinistra. C’è ancora Maddalena (61). Sale inaspettatamente al primo posto Mattarella con 139 voti e qui, con tutta probabilità, il presidente “uscente” sospende il trasloco già iniziato. Al secondo posto, con 114 voti, si piazza Crosetto: una prova di forza della Meloni, che vuol far vedere che FdI c’è e lei può inserirsi nella sfida per la guida del centrodestra. Di fatto, un piccolo successo lo ottiene perché quei voti sono quasi il doppio dei 63 a disposizione del suo partito. Restano più di 400 le schede bianche.
Nella stessa giornata, dopo quei risultati, prende quota come “designatore del re” Salvini che, parlando sempre in prima persona (essendo convinto di “vincere” non vuole spartire con nessuno i meriti) comincia a sfornare nomi a ripetizione (lui se ne vanta, ma non è un gran merito se poi quei nomi vengono bocciati). Tre sono i “papabili” proposti dal centrodestra: Pera, Moratti, Nordio. Nella quarta votazione di giovedì 27 nessuno dei tre comparirà a referto! Il grosso degli schieramenti o si astiene (441) o vota scheda bianca (216). Mattarella ottiene 166 voti e comincia a diventare una cosa seria. Nino Di Matteo, subentrato a Maddalena, si ferma a 56.
La commedia muta in farsa nel quinto scrutinio (il primo di venerdì 28). Sull’altare dell’idiozia viene sacrificata la seconda carica dello Stato: la presidente del Senato, Alberti Casellati, sostenuta (si fa per dire) dal centrodestra. A fronte di 406 astenuti, la Casellati ottiene 382 voti, ben lontana dai 451 dello schieramento che l’ha proposta. Il centrodestra entra in fibrillazione e da questo momento ognuno va per sé. Sale Mattarella nel sesto scrutinio: 336 voti per lui e 444 astenuti. In vista della settima votazione, la mattina di sabato 29, Salvini e Conte propongono Elisabetta Belloni, “capo degli 007 italiani”, subito bruciata da Renzi e Di Maio. Mattarella sale a 387 voti e a questo punto appare come l’unica soluzione possibile. Rispunta Nordio, candidato di bandiera di FdI, con 64 voti. 380 gli astenuti, 60 le bianche.
Per l’appuntamento del pomeriggio di sabato (ottava votazione) tutta la maggioranza che sostiene il governo Draghi è ormai d’accordo su Mattarella. Si defilano FdI e gli ex M5s. I capi gruppi dei vari partiti salgono al Colle. Lo scrutinio si conclude con un ampio consenso (759 voti) all’ex presidente uscente e neo capo dello Stato confermato.
Resta fuori da questa sintesi il presidente del Consiglio Mario Draghi perché non basterebbe un altro articolo per cercare di districare le alterne fortune del suo nome nella corsa al Quirinale. Ma anche perché, di fatto, il suo nome è sempre stato oggetto di attenzione ma mai di una candidatura vera e propria: un po’ per ostilità nei suoi confronti, tanto per la paura di dover affrontare il problema di un nuovo governo, sia che Draghi uscisse bocciato, sia che risultasse promosso dal voto.
Antonio Ricci