A te la mia lode, Signore Gesù, nella grande assemblea

Domenica 29 aprile, quinta domenica di Pasqua
(At 9,26-31;   1Gv 3,18-24;   Gv 15,1-8)

17vangeloGesù ha appena annunciato ai discepoli la venuta del Paraclito, dello Spirito Santo. Già ha paragonato se stesso a un pastore e i discepoli alle sue pecore, ora si paragona a una vite con i suoi tralci. Il messaggio però è lo stesso: la relazione di comunione tra Gesù e noi.
Come i tralci alla vite, anche noi, se vogliamo essere suoi discepoli, dobbiamo entrare profondamente in comunione con Lui. Lui ci ama, perché siamo unici.
La cura che il contadino ha per la sua vigna non si avvicina nemmeno lontanamente al Suo amore per ciascuno di noi. Ma, solo se il tralcio è unito alla vite vive e porta frutto, dando senso alla propria esistenza. E, contemporaneamente, è unito irreversibilmente anche agli altri tralci. Staccati da Lui e dai fratelli, non possiamo fare nulla. Dalla profonda radice dell’amore di Gesù nascono la fraternità, l’amore e la carità reciproca, che si estendono all’intero genere umano.
Tutto questo oggi è messo in discussione, senza pietà, dal nuovo sistema di valori della ‘società moderna’, per cui tutto, anche la vita, è un ‘bene’ di cui disporre e nient’altro. E le persone contano sempre meno, isolate ed insignificanti. Il nostro difficile compito è raccogliere questa sfida e aiutare tutti a passare da una vita “comune” ad una vita “in comune”. I frutti si vedono, e si vedranno, nella giustizia, e nel rispetto e nell’amore per ogni creatura umana, dal bimbo ancora nel grembo della madre, al vecchio confuso e solo, che avvizzisce nella carne.
Perché l’uomo non è il protagonista di una storia di conquista del potere sugli altri uomini e sul creato, ma è figlio e fratello, e, nella storia, trova la sua strada verso il Regno di Dio, attraverso la comunione personale e comunitaria con il Figlio. Ciò che è andato perduto, e va recuperato, è proprio il senso di ‘comunità’ del Cristianesimo, già aggredito nei secoli da sette eretiche e scismi che incoraggiavano al rapporto ‘puramente personale’ con Dio, bypassando i fratelli.
Un’idea liberante, forse, appetibile, soprattutto oggi che è così impresso nelle nostre menti lo stereotipo della collettività come ‘opprimente’, nemica dei nobili spiriti liberi, un’entità malvagia che ‘tarpa’ le ali degli uomini e impedisce loro di trovare la felicità. Ma come la Storia ha dimostrato, tali iniziative hanno ottenuto nel lungo termine un risultato contrario ai loro scopi: hanno reso l’uomo soltanto più schiavo del Potere, quello veramente malvagio, quello che illude e corrompe, che lusinga e rende dipendenti da esso.
Lontano dai fratelli, senza nessuno con cui confrontarsi, l’uomo è solo una facile preda del male, come un tralcio che strappato dalla vite può solo avvizzire.

Pierantonio e Davide Furfori