Quella difficile convivenza tra l’uomo e il lupo

Nella Lunigiana di fine Ottocento l’uso delle “terre alte” favorì il confronto e l’animale ebbe la peggio. Scomparso per decenni ora è tornato. La storia del giovane Giuseppe Maffei di Apella che incontrò il lupo al Prato del Ferro

Il lupo presente nell’Appennino italiano (da Wikipedia)

Complice una caccia feroce da parte dell’uomo, il lupo nel nostro Appennino era scomparso fin dall’inizio del Novecento. Ma la sua presenza era così radicata da lasciare traccia ancora oggi nella denominazione di numerosi luoghi nelle aree collinari e montane del comprensorio. Un paio di chilometri a nordest di Grondola, sullo spartiacque con il versante di Succisa ad esempio, esiste un pianoro a poco meno di mille metri di altitudine noto come il “Ballo del Lupo” (Bal du Lov). E ancora non lontano dalla località Montaio, lungo la strada per il Brattello, è nota la località “Ca’ del Lupo”.
Una convivenza sempre difficile, diventata una vera e propria lotta per la sopravvivenza nella seconda metà del XIX secolo, anni di una crescita demografica che aveva portato la popolazione dei nostri paesi a raggiungere livelli record. Solo per restare nel territorio di Pontremoli, le due “ville” di Gravagna contavano su circa ottocento residenti, scesi a 711 nel 1901, quando l’emigrazione all’estero aveva già iniziato quel fenomeno dello spopolamento che si è manifestato in modo massiccio sia nel primo che nel secondo dopoguerra. Aumento della popolazione significava molte bocche da sfamare e la conseguente ricerca di nuove terre da coltivare o dove pascolare il bestiame.
Una sorta di “occupazione” delle “terre alte” che si manifestò sia con la diffusione massiccia della pratica dell’alpeggio sia con una frequentazione in periodi sempre più lunghi. Nel primo caso intere famiglie si trasferivano nei villaggi organizzati più in alto da aprile a settembre; nel secondo si cercava di rendere produttive sempre maggiori estensioni a monte dei centri abitati. Sono decine gli esempi dei quali si possono ancora scorgere le tracce: le capanne di Vruga sopra Bosco di Rossano, la Formentara a monte di Noce di Zeri, Fontana Gilente e altri insediamenti temporanei nella valle del Verde tra Cervara e Guinadi, Batone a monte di Treschietto nel Bagnonese e tanti altri.
Una “colonizzazione” che inevitabilmente mise a confronto l’uomo con gli animali che popolavano da secoli e quasi indisturbati quei territori dove la presenza umana era fino ad allora stata sporadica e per lo più limitata al transito lungo le direttrici dei passi appenninici. I due rappresentanti principali di quella fauna selvatica sono stati i rapaci di maggiori dimensioni e il lupo.
L’esemplare più ammirato e temuto della prima famiglia è certamente l’aquila reale: dal volo maestoso quanto silenzioso, con un’apertura d’ali così ampia da oscurare il sole, e così “rapace” e forte da poter carpire e trasportare in volo anche agnelli e capretti. Temuta, certo, ma ben poco al confronto con la paura che incuteva il lupo.
Per delineare alcuni aspetti del rapporto tra l’uomo e l’animale a cavallo tra Ottocento e Novecento, vale la pena ricordare quanto descritto Carlo Bruno Brunelli nella sua monografia del 1972 dedicata alla comunità di Collesino. Ci ha tramandato infatti un episodio che ancora viene ricordato in quell’angolo di Lunigiana a cavallo tra le comunità di Collesino e di Apella, la prima nell’alta valle del Bagnone, la seconda là dove nasce il ramo di destra del Taverone; qui esiste una località tuttora nota come “il Prato del Ferro”.

Il Prato del Ferro, a 1500 metri di altitudine a monte di Apella (foto Matilde Ferrari)

Siamo a circa 1500 metri di altitudine: oggi è un’impegnativa meta di escursionisti, ma fino a pochi anni fa era utilizzata per la fienagione o dai pastori per il pascolo delle greggi; inoltre da qui transitava una via di comunicazione fra la Lunigiana e le valli emiliane, in particolare quella del torrente Cedra. Fino alla metà dell’Ottocento, quando venne poi intensificata la caccia, Brunelli spiega che “a nord di Collesino vivevano branchi di lupi”, soggetti la cui ferocia veniva spesso ingigantita nelle fole che gli adulti raccontavano ai più piccoli anche per evitare che si allontanassero troppo da casa in un territorio nel quale, quando in inverno la neve cadeva copiosa, i lupi scendevano vicino alle case alla ricerca di cibo.
Ad Apella, che da Collesino si raggiungeva in poche decine di minuti di cammino, viveva il giovane Giuseppe Maffei che era solito recarsi a trovare la fidanzata nel paese di Valditacca, poco oltre il crinale dell’Appennino. Percorrendo la ampia ma ripida mulattiera che ancora oggi sale da Apella, giunto al Prato del Ferro si imbatté in un lupo affamato che lo assalì: nella lotta furibonda il giovane fu azzannato a morte dall’animale che tuttavia morì a sua volta per le ferite infertegli dal Maffei con il suo coltello. Uomo e lupo furono trovati il giorno successivo in fondo al burrone dove erano precipitati ormai senza vita.
Un racconto che potrebbe sembrare leggenda se non fosse per l’iscrizione ancora leggibile e incisa su una pietra nel luogo del tragico avvenimento accaduto all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento. Ma oltre alla paura di perdere la vita nell’impari lotta con un lupo, questo animale era causa di grandi danni per quelle comunità che fondavano la propria sopravvivenza e un’economia di sussistenza soprattutto sull’allevamento del bestiame.
Per questo nei diversi territori alcuni uomini si erano specializzati nella caccia al lupo, che divenne animale protetto solo con le leggi approvate in Italia a partire dal 1971.
Erano dunque molti i cacciatori di lupi che avevano fatto della loro attività venatoria un vero e proprio mestiere; uno di questi, soprannome “Citrin”, è citato ancora da Brunelli: il suo terreno di caccia era l’Appennino tra Bagnone e Licciana e una volta ucciso il lupo veniva mostrato alla gente del luogo. Infatti “attraversava i paesi di Collesino, Compione, Iera e Taponecco, nonché l’Apella, con una cavalla sulla quale trasportava come un trofeo la pelle del lupo ucciso, convenientemente imbottita di paglia, tra lo stupore e la curiosità dei grandi e dei bambini”.
Quel mostrare la preda impagliata non era solo ostentazione di coraggio e abilità, bensì il mezzo per reclamare la ricompensa a quelle comunità alle quali aveva tolto un potenziale pericolo e che in quelle occasioni gli cedevano una certa quantità di generi alimentari, quasi sempre farina di castagne, con le quali “poter sfamare sé e la sua famiglia”.

Paolo Bissoli