Presentato a Roma il decimo Rapporto “Il bilancio del sistema previdenziale italiano”
Il sistema previdenziale italiano per il momento “tiene”. O per dirla con gli esperti del Centro studi “Itinerari previdenziali”, il futuro delle pensioni degli italiani “non desta preoccupazioni, a patto però di compiere scelte oculate su anticipi ed età di pensionamento e di migliorare la politica industriale del Paese”. Queste in sintesi le conclusioni del decimo Rapporto “Il bilancio del sistema previdenziale italiano. Andamenti finanziari e demografici delle pensioni e dell’assistenza per l’anno 2021”, presentato a Montecitorio la scorsa settimana.
A confortare, più di ogni altro dato, è il rapporto tra persone in attività e pensionati: nel 2020 per ogni pensionato vi erano 1,38 lavoratori; nel 2021 il rapporto è salito a 1,42. Possono sembrare variazioni trascurabili, però sono salutate positivamente in questo inverno demografico in cui l’ombra di un rapporto 1:1 tra lavoratori e pensionati si allunga sul sistema socio-economico italiano. Dubbi, semmai, possono esserci sulla quantità di contributi versati dai lavoratori, stanti i livelli salariali medi molto bassi e la quota molto alta di lavoratori precari e discontinui.
Ma da questo punto di vista per i curatori del rapporto – si tratta di alcuni tra i massimi esperti di previdenza in Italia – non c’è motivo di dubitare della sostenibilità del sistema. In altre parole: le pensioni, secondo i dati attuali, continueranno ad essere pagate ancora a lungo, grazie ai contributi versati da lavoratori e datori di lavoro.
Questa rassicurazione, però, viaggia in parallelo con un ammonimento: la sostenibilità degli assegni pensionistici italiani potrà essere garantita a patto che già nel 2023 si riducano le numerose forme di anticipazione pensionistica sopravvissute alle riforme degli ultimi anni.
Gli assegni pensionistici erogati nel 2021 erano esattamente 16.098.748, circa 57 mila in più del 2020. Un incremento che incorpora, da un lato, le numerose (ma non troppo sfruttate, secondo i dati) deroghe alla legge Fornero introdotte dal 2014 in poi e, dall’altro lato, le 69.230 prestazioni eliminate, parte delle quali, sottolinea il Rapporto, anche a causa della pandemia. Dall’altro lato, a garantire stabilità al sistema sono anche gli oltre 550 mila lavoratori in più rispetto al 2020, dato confermato anche dal numero di occupati che, a fine giugno 2022, superavano i 23 milioni.
Il sistema pensionistico italiano conta ancora circa 350 mila prestazioni previdenziali di durata ultraquarantennale (le baby pensioni); nonostante ciò, nella conferenza di presentazione i curatori del Rapporto hanno rassicurato sul futuro delle pensioni.
“Ad oggi il sistema è sostenibile – ha spiegato il presidente del centro studi, Alberto Brambilla – e lo sarà anche tra 10-15 anni, quando le ultime frange dei baby boomer nati dal dopoguerra al 1980 si saranno pensionate; ma perché si mantenga questo delicato equilibrio, sarà indispensabile intervenire sul sistema”. Diverse le proposte di Brambilla.
La prima: innalzare l’età effettiva di pensionamento, attualmente tra le più basse d’Europa (circa 63 anni di età effettiva contro i 65 della media europea, nonostante un’aspettativa di vita tra le più elevate a livello mondiale), dimenticando però che con un’età legale di pensionamento di 67 anni, destinata ad innalzarsi automaticamente, e con un’età di accesso al lavoro stabile sempre più elevata, i 67 anni sono già il traguardo imposto alla maggioranza dei lavoratori.
Le altre proposte di Brambilla parlano di generiche e vaghe misure volte a favorire un’adeguata permanenza sul lavoro delle fasce anziane della popolazione; di “capacità di progettare una vecchiaia in buona salute”; di politiche attive del lavoro e di formazione professionale continua.
Sono proposte teoricamente condivisibili che, tuttavia, fanno fatica a convivere con una realtà fatta non solo di lavori intellettuali, ma anche di pesanti lavori usuranti o di storie di pendolarismo, o di conciliazione tra lavoro retribuito e lavoro domestico, che rendono poco attraente il lavoro fino alla soglia dei 70 anni. Senza contare la propensione delle aziende a impiegare lavoratori giovani e meno costosi in sostituzione di anziani meno dinamici e meno adatti al cambiamento: dati incontrovertibili, rispetto ai quali la formazione continua può dare un contributo minimale.
Insomma, le confortevoli rassicurazioni sulla tenuta della previdenza italiana non riescono a nascondere la complessità di un sistema fiaccato da una crisi demografica rispetto alla quale non si vedono politiche efficaci né credibili e gravato da un precariato destinato a fornire in futuro pensioni pari al 40-50% dell’ultimo stipendio. Ma il tema dei futuri pensionati poveri e della necessità di un minimo pensionistico garantito a tutti per ora sembra al di fuori dell’agenda politica.
Davide Tondani