
Al ricordo dei 30 anni trascorsi dalla morte di Giovanni Falcone, è giunto il momento di associare quello del collega e amico Paolo Borsellino, ucciso sotto casa sua, in via D’Amelio, il 19 luglio 1992, in un attentato in cui persero la vita, assieme a lui, i cinque agenti della scorta. Sulle due stragi, così come su tante altre che hanno insanguinato la storia del nostro Paese, non si è ancora riusciti a fare chiarezza fino in fondo e, cosa ancor più grave, le indagini, portate avanti tra mille difficoltà e con ritardi che ne hanno sminuito l’efficacia almeno dal punto di vista processuale, hanno evidenziato i depistaggi messi in atto da parti deviate dello Stato.
Contribuiscono a delineare la figura del magistrato alcune testimonianze raccolte per l’occasione dal Sir. È Diego Cavaliero, sostituto di Paolo Borsellino alla Procura della Repubblica di Marsala, tra il 1986 e il 1992, poi grande amico, a presentare alcuni aspetti della sua personalità. La grande umanità: “Dopo un paio d’ore dal primo incontro, mi ritrovai a casa sua perché mi invitò a pranzo”. Il suo modo di lavorare: “Paolo proteggeva i colleghi, faceva da parafulmine… Era un mezzo blindato… Si arrabbiava quando veniva contraddetto. Però, dopo mezz’ora massimo, tornava e diceva di andarci a prendere il caffè”.
L’abbandono da parte dello Stato: “Perché non è stato protetto? Non so se sarebbe vivo, però credo che lo Stato si sia un po’ ‘distratto’, per usare un eufemismo”. Secondo il giornalista Umberto Lucentini, “era un magistrato che credeva nella forza della verità. Raccoglieva le prove, trovava i riscontri alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e poi esercitava il suo ruolo di giudice”. “Purtroppo, afferma, nella vicenda giudiziaria che ha riguardato il depistaggio l’eredità di Paolo Borsellino e il suo rigore morale non sono stati seguiti”. Secondo il giornalista, la sua caratteristica principale era quella di sapersi mettere dalla parte e nei panni del suo interlocutore; ciò gli permetteva di sfruttare al massimo la collaborazione dei pentiti. Infine, la testimonianza resa a Toscana Oggi dal nipote, figlio della sorella Rita, Claudio Fiore, che oggi vive nella campagna di San Miniato, in provincia di Pisa.
“Nelle settimane successive all’attentato a Falcone, ricorda, lo zio Paolo aveva il volto particolarmente provato”, per il dolore di quello che aveva dovuto vivere. “Era consapevole che da lì a poco sarebbe toccata anche a lui la stessa sorte”. “In quei 57 giorni cominciò a lavorare a testa bassa; diceva spesso: Non ho più tempo, devo fare presto!”. Aveva una grande fiducia nello Stato e nel rispetto dei ruoli. A chi gli proponeva di chiedere maggiori misure di protezione rispondeva: “Ci sono persone che hanno in carico la mia sicurezza, questo è compito loro”.
Un credente con una fede profondissima ma mai ostentata: “Si confessava spesso in quel periodo. Diceva che doveva essere sempre pronto. La fede lo aiutava, credo, anche a essere quella persona gioiosa e cordiale che ho sempre conosciuto”.