In uno scenario post bellico ventisette coalizioni e 143 partiti si contendono il favore degli elettori
Sono quasi 25 milioni gli elettori chiamati alle urne in Iraq il 12 maggio per scegliere tra i circa 7 mila candidati (2 mila donne), i 329 parlamentari. Ventisette le coalizioni in lizza, 143 i partiti. Una frammentazione che non ha risparmiato né gli sciiti, che sono il 60% della popolazione, né i sunniti (20%), né i curdi con il loro 15%. In un panorama politico così diviso, neppure la minoranza cristiana in Iraq fa eccezione: sei liste, più una settima creata intorno a una sola persona (altri 15 candidati si presentano con liste diverse), si contendono i cinque seggi riservati – come ad altre minoranze – ai cristiani; 61 sono i candidati totali.
A pochi giorni dall’appuntamento, il patriarca caldeo di Baghdad, Louis Raphael Sako, ha espresso al Sir l’auspicio che dal voto esca “un parlamento che sappia arginare con forza la corruzione e la mafia dilagante, favorire la ricostruzione, la riconciliazione e rendere il Paese sovrano e libero dalle pressioni di potenze internazionali e regionali”. Non esita a definire questo “un momento importante per tutto il popolo per cui è necessario favorire la partecipazione”, nella speranza che il voto “non sia minacciato da attacchi terroristici che pure si verificano quotidianamente”.
Difficile pronosticare la vittoria di una lista, molto probabile è la formazione di un Governo di coalizione, la cui guida deve essere riservata a un esponente sciita. Si spera in una personalità laica che abbia a cuore il bene di tutta la popolazione, guardi allo sviluppo e al progresso integrale del Paese e non persegua interessi di parte, facendo leva sulla religione o sul partito.
In Iraq la popolazione ha sofferto molto in questi anni e vuole cambiare e il nuovo Parlamento, che sarà chiamato a eleggere il capo del Governo e il presidente della Repubblica, non potrà ignorare questo desiderio. Al primo posto dovranno essere poste la lotta alla corruzione e alla mafia, la ricostruzione delle infrastrutture del Paese, l’economia e il lavoro, la stabilità, la sicurezza degli abitanti, senza dimenticare il rispetto dei diritti umani. “Con queste intenzioni, ricorda il patriarca, ogni domenica preghiamo per il nostro Paese”.
La strada sarà lunga. L’Iraq sta cercando di uscire dalla guerra contro lo Stato islamico, la cui sconfitta era stata annunciata lo scorso dicembre. In realtà, è vero che alcune zone sono state liberate e pacificate ma la mentalità dell’Isis resiste e è dura da sconfiggere.
Un altro punto debole è la politica estera. Il Paese è ricco di petrolio e di risorse naturali, posto in una posizione strategica e per questo appetito da molti. La sue sorti sono legate a quelle della Siria, dello Yemen e di altre nazioni in conflitto. Il rischio è quello di un tracollo generale e la comunità internazionale non fa nulla per evitarlo e porre fine alle crisi in atto.