Giovanni Falcone, ammirato dopo la morte, in vita ebbe tanti nemici, non solo i criminali mafiosi da lui combattuti con professionalità, ma anche uomini delle istituzioni.
In una serie di interviste concesse alla giornalista francese Marcelle Padovani nel 1991, Falcone aveva rimarcato che “in Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere” e “spesso non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno”.
Lo aveva percepito dopo la grande impresa di aver mandato a giudizio e fatto condannare anche con ergastoli oltre quattrocento persone nel maxiprocesso, il primo duro colpo alla mafia siciliana. Doveva essere punto di partenza per il “pool” antimafia di Palermo per arrivare a sconfiggerla, come succede per ogni fenomeno storico.
Falcone e Borsellino avevano preparato il maxiprocesso con un impegno duro, continuo, con scrupoloso controllo di tutte le prove, particolarmente assegni, movimenti di denaro allargati a indagini con collaborazioni all’estero. Fu messo in atto un metodo, fu scoperta la composizione “a cupola” della mafia coi suoi gradi gerarchici. Dopo tanto successo si poteva vincere tutta la guerra, continuando ad operare con gli stessi criteri di indagine e con lo stesso rigore professionale di cui Falcone è stato eccellente testimone.
La mafia arrivò prima, uccidendo i due giudici Falcone e Borsellino; le due stragi destarono una forte reazione, si manifestò volontà di cambiamento in Sicilia e in tutta Italia, le forze di polizia e giudiziarie ottennero successi notevoli. Come era stato sconfitto il terrorismo rosso e nero degli “anni di piombo”, si sarebbe potuto porre fine al multiforme fenomeno mafioso, il cancro che soffoca l’economia e prospera ovunque ci sia odore di soldi. Invece no: mancò la volontà politica, riemersero le collusioni con partiti politici, con singoli apparati o uomini delle istituzioni.
La mafia voleva vendetta, passò a reazioni di tipo militare, a nuovi delitti a cominciare dall’andreottiano Salvo Lima, ucciso per non aver garantito dalle condanne gli imputati di grosso calibro. Falcone sapeva che la mafia avrebbe reagito, già gli aveva preparato un attentato, ma non si tirò indietro, pur sapendo di dover morire; con passione morale e spirito di servizio disegnò come tornare a indagare, a denunciare le vecchie pratiche di clientelismo e voto di scambio.
Per avere le necessarie condizioni operative si candidò al CSM ma fu respinto, il governo De Mita non gli diede la nomina ad alto commissario antimafia: tutti indizi che la mafia rimane forte e debole il governo della repubblica. “Falcone fu lasciato solo” ha detto la sorella Maria nelle belle manifestazioni di questi giorni, a 25 anni dal suo assassinio.
Maria Luisa Simoncelli