Dalla pandemia si esce davvero tutti assieme?

L’idea è stata presto archiviata: in vista ci sono licenziamenti, subappalti e deregolamentazioni. Una ripartenza post-covid che strizza l’occhio alle imprese senza spazi per la politica sociale

Dalla pandemia non ci si salva da soli, ma tutti assieme. Una frase pronunciata dal Papa, dai medici, dagli esperti di scienze sociali e da molti politici, riferita all’ambito sanitario, a quello delle relazioni internazionali fino a quello socioeconomico.
A 16 mesi dall’inizio dell’epidemia, ora che le vaccinazioni e le misure di contenimento del virus hanno iniziato a dare i frutti sperati, la retorica del “ce la faremo” e del Paese che ha reagito unito sta facendo posto a quelle logiche di parte che a stento sono state trattenute in tutti questi mesi. La politica economica è uno dei settori della vita del Paese in cui lo scollamento tra i vari corpi della società si osserva più facilmente, nonostante il paradosso di un governo di unità nazionale.

Il presidente del Consiglio dei Ministri, Mario Draghi

E a trarne giovamento è il mondo imprenditoriale e degli affari, abile negli ultimi decenni nel costruire una narrazione di sé come pilastro fondamentale della società italiana, coprendo però i propri limiti. La drastica riduzione degli investimenti, le delocalizzazioni, una competitività basata sui risparmi sul costo del lavoro, la scarsa capacità di innovazione.
La vicenda della moratoria dei licenziamenti economici, che terminerà il 30 giugno, è esemplificativa dei rapporti di forza tra parti sociali nel governo del Paese. Lo stesso Draghi – che ha bloccato sul nascere l’ipotesi di un inasprimento dell’imposta di successione per i patrimoni sopra i 5 milioni perché per lo Stato “è tempo di dare, non di chiedere” – non ha voluto concedere altri due mesi di sospensione per i licenziamenti collettivi sostenuti dalla cassa integrazione.
Difficile azzardare una previsione su quanti lavoratori dipendenti saranno lasciati a casa nei prossimi mesi. Con 900mila posti già persi durante la pandemia e 99 tavoli di crisi aziendale aperti al Ministero dello Sviluppo Economico per un totale di 55 mila posti a rischio, la ripresa dei licenziamenti potrebbe tradursi in un’ecatombe occupazionale che, oltre a danneggiare i singoli lavoratori, minerebbe la ripresa della domanda interna.

Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi

Ma il mondo delle imprese, rappresentato da oltre un anno da un presidente con una storia imprenditoriale mai così poco significativa e con un profilo mai così poco istituzionale, va dritto per la sua strada. Incurante del fatto che tra il 2005 e il 2019 il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito dal 3,3% al 7,7% della popolazione, prima di aumentare ancora nel 2020 fino al 9,4%, il prossimo obiettivo del mondo produttivo è il reddito di cittadinanza.
Uno strumento imperfetto e incapace di riaccompagnare al lavoro i suoi percettori, a causa delle riforme che hanno depotenziato i Centri per l’impiego, ma in questa fase il “reddito grillino” ha pur sempre un’importanza centrale per la tenuta sociale. Per le imprese italiane dei servizi (ad esempio nel turismo e nella ristorazione) è invece lo strumento che consente ai percettori di rifiutare posti di lavoro a salari ridotti e garanzie contrattuali minime, quando non nulle e che obbliga quindi a domandare manodopera a condizioni più onerose.
Stessa lunghezza d’onda per il Recovery fund e le semplificazioni al codice degli appalti: Confindustria ha ingaggiato sul PNRR uno scontro frontale con il governo Conte per indirizzare i fondi europei secondo le proprie indicazioni e dopo avere contribuito alla caduta del governo Pd-M5S ha influenzato la riscrittura del Piano e delle norme ad esso collegate. Le imprese, a cui sono state destinate risorse pari ai due terzi del nuovo debito pubblico emesso durante la pandemia, gioveranno di un piano Next generation EU ben poco “verde”: solo il 16% degli stanziamenti saranno dedicati ad una vera transizione ecologica, contro il 38% della Germania, il 23% della Francia e il 31% della Spagna.
Ma non solo: sul piatto più ricco della torta, quello delle infrastrutture, le semplificazioni, meglio definibili come deregolamentazioni, vanno nella direzione di subappalti, che potrebbe estendersi anche al 50% dei lavori, con norme molto fragili per evitare la prassi dell’assegnazione al massimo ribasso. Insomma, l’atteso ritorno alla normalità, se si esclude l’assegno unico progettato dal governo Conte, prevede per le famiglie licenziamenti e nessuna novità in tema di spese e investimenti sociali, mentre per le imprese si predispongono fondi europei e semplificazioni normative.
Per fare un confronto: negli Stati Uniti, Joe Biden ha predisposto un piano infrastrutturale da 2 mila miliardi di dollari in 8 anni, per rilanciare l’occupazione e mitigare la crisi climatica, finanziato da aumenti delle tasse sulle società dal 21% al 28% e dalla proposta di un’imposta minima globale per le multinazionali. Le imprese che vorranno accedere alle gare dovranno fornire precise garanzie occupazionali e offrire retribuzioni non inferiori a 15 dollari orari.
In Italia si procede invece con la visione neoliberista degli ultimi 30 anni, incapace di generare benessere diffuso, ma a cui il Paese si è assuefatto: Flavio Briatore (“il povero mangia se c’è il ricco che lo fa mangiare”) ha chiarito che l’idea di uscire dal tunnel del Covid tutti insieme è definitivamente tramontata.

(Davide Tondani)