Lunedì 23 maggio l’Italia ha ricordato la strage di Capaci, nella quale, ormai 30 anni fa, furono uccisi dalla mafia – facendo esplodere nel tratto dell’omonimo svincolo autostradale un ordigno di potenza pari a 500 chili di tritolo – il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e tre agenti della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Per ricordare quel fatto luttuoso, sul luogo dell’attentato si è svolta una manifestazione alla quale hanno partecipato anche studenti provenienti da 1.070 istituti scolastici.
Parlare di Falcone e del suo collega e amico Borsellino, ucciso nello stesso modo meno di due mesi dopo, e di quanto accaduto 30 anni fa è già opera di storia perché le azioni dei due giudici e quei fatti hanno segnato un ‘prima’ e un ‘dopo’ nella lotta dello Stato contro la mafia.
Delle delusioni legate al ‘prima’ si è parlato e scritto tanto, soprattutto in relazione all’incapacità dei diversi regimi e governi che si sono succeduti nel Regno d’Italia e, poi, nella Repubblica italiana non solo di porre fine al triste fenomeno, ma di metterlo almeno in seria difficoltà. Del ‘dopo’ è più complicato scrivere perché ancora oggi, come per tante altre stragi che hanno insanguinato l’Italia negli scorsi decenni, non è ancora stata fatta piena luce sui fatti né, soprattutto, sulle vicende che li hanno preceduti e, in qualche modo, favoriti.
Ecco perché, allora, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, presente alla manifestazione palermitana, ha potuto affermare che “le visioni d’avanguardia, lucidamente ‘profetiche’, di Falcone non furono sempre comprese; anzi in taluni casi vennero osteggiate anche da atteggiamenti diffusi nella stessa magistratura, che col tempo, superando errori, ha saputo farne patrimonio comune e valorizzarle”. Alle 17,57 del 23 maggio 1992, ha aggiunto il capo dello Stato, “la storia della nostra Repubblica sembrò fermarsi come annientata dal dolore e dalla paura. Il silenzio assordante dopo l’inaudito boato rappresenta in maniera efficace il disorientamento che provò il Paese di fronte a quell’agguato senza precedenti”. Se si può essere d’accordo con Mattarella, che ha sottolineato la capacità di reazione dello Stato democratico, non si può tuttavia negare che molto resti da chiarire e da fare per giungere alla conclusione del lavoro iniziato da Falcone e Borsellino.
E allora si possono condividere anche le parole della sorella Maria, che si è detta certa che “Giovanni sarebbe soddisfatto per come le sue idee continuano a camminare sulle gambe di tante persone”. Ed ha sottolineato l’importanza di far arrivare questi messaggi ai giovani, ai quali la Fondazione intitolata al fratello, con l’incontro di Palermo, ha voluto dare “una lezione di educazione civica che fosse una memoria di tutti i morti di mafia, non solo di Giovanni, Francesca e degli agenti della scorta”.
Antonio Ricci