Il sogno rivoluzionario degli operai di Monfalcone

Nel 1947 oltre duemila emigrarono in Jugoslavia, ma furono vittime dello scontro fra Tito e Stalin

Manifestazione filo jugoslava a Monfalcone l’11 agosto 1946 (da www.novecento.org)

Era l’inizio del 1947, le macerie della guerra occupavano ancora le città e le infrastrutture da ricostruire. Il presidente del Consiglio, De Gasperi, si era dimesso da poco da capo del primo governo della neonata Repubblica Italiana: sarebbe stato il successore di se stesso altre due volte in pochi mesi e l’esperienza dei governi ispirati dal CLN (DC, PCI, PSI, PDL) si stava rapidamente esaurendo.
A giugno sarebbe iniziata la lunga stagione del centrismo con altri cinque esecutivi guidati dallo statista trentino. In questo scenario oltre duemila “monfalconesi”, in maggioranza operai nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico, emigrarono nella vicina Jugoslavia per lavorare nei cantieri navali di Fiume e di Pola.
I Trattati di Parigi avevano appena stabilito il ritorno di Monfalcone nella piena sovranità italiana, mentre le due cittadine istriane passavano alla neocostituita Repubblica Popolare Federale di Jugoslavia.
Era ormai palese la scelta del segretario del Partito Comunista Italiano, Palmiro Togliatti, per una via parlamentare di confronto invece di quella rivoluzionaria che aveva ispirato gran parte dei partigiani “rossi” durante la Resistenza e una grande fetta della società italiana continuava a sentire forte il richiamo di una società modello Unione Sovietica.
Per molti le repubbliche socialiste della federazione jugoslava erano la possibilità concreta di entrare in quel mondo che in Italia difficilmente avrebbero visto realizzato.
Motivazioni politiche e sociali che dunque ispirarono un viaggio che trovava le proprie motivazioni nella storia recente di quegli uomini, molti dei quali l’8 settembre 1943 avevano dato vita ad una formazione partigiana (la Brigata Proletaria) che vide combattere sul Carso, italiani e sloveni fianco a fianco, con oltre cento morti uccisi dai nazifascisti.
Per oltre duemila operai di Monfalcone quel progetto di vita in una società figlia della rivoluzione proletaria era a portata di mano, separato da pochi chilometri e il loro “esodo” fu agevolato dalle notevoli capacità per le quali queste maestranze erano ben note.
I cantieri di Fiume e Pola li accolsero a braccia aperte, le comunità locali agevolarono l’inserimento delle famiglie che molti portarono con sé.

L’isola Calva davanti alla costa della Dalmazia dove era un campo di prigionia (da Wikipedia)

Le speranze furono ben presto disilluse: lo strappo di Tito nei confronti di Stalin aveva portato la maggioranza dei “monfalconesi” a schierarsi con l’Unione Sovietica e il progetto si dissolse in un miraggio.
Entro il 1948 quasi tutti erano tornati in Italia dove spesso venivano emarginati con l’epiteto di “sciavo”, slavo, come descrive molto bene Andrea Berrini nel suo saggio “Noi siamo la classe operaia. I duemila di Monfalcone” (Baldini Castoldi Dalai, 2004).
Tra quanti erano rimasti, gli esponenti più in vista tra gli operai di Monfalcone furono arrestati e molti di loro trascorsero lunghe detenzioni nei campi di prigionia di Tito; alcune decine anche a Goli Otok, “l’inferno” sull’Isola Calva dove i prigionieri erano picchiati ogni giorno.
Testimonianze raccolte dal giornalista e scrittore Giacomo Scotti (“Ritorno all’Isola Calva”, Trieste 1991) spiegano che “a differenza dei campi nazisti, a Goli Otok non si uccideva. Se vi furono dei morti fu per disgrazia, involontariamente. Ma mentre nei campi nazisti la repressione era amministrata direttamente dalle SS, e le SS le vedevi dappertutto, a Goli Otok la repressione era amministrata dagli stessi internati cominformisti. I titini neanche li vedevi…”.

(Paolo Bissoli)