Brexit: addio o arrivederci?

Dopo lo “sballo” dell’uscita, l’impegno a non spezzare i rapporti di amicizia con l’Europa. “Destinati a vivere e lavorare insieme”

La Union Jack viene rimossa dalle sedi dell'Unione Europea
La Union Jack viene rimossa dalle sedi dell’Unione Europea

Volendo sprecare paroloni, si dovrebbe parlare di eterogenesi dei fini; ma, per farla breve, si può riassumere così: Brexit nasce soprattutto dal timore dell’invasione degli immigrati stranieri. Ora che Brexit è divenuto realtà, in Europa gli extracomunitari sono proprio loro: gli inglesi. Dal 1° febbraio il Regno Unito ha preso la sua strada: fuori dall’Unione europea, indicata come grande nemico della libertà di scelta e di azione britannica. Dopo 47 anni con un piede dentro e l’altro fuori dalla “casa comune”, gli elettori isolani hanno deciso, liberamente e democraticamente (anche se ci si potrebbe domandare quanto consapevolmente), di lasciare l’Ue.
Fino al prossimo 31 dicembre non cambierà praticamente nulla, trattandosi di 11 mesi di “periodo di transizione”, concordato fra Londra e i Ventisette per definire i dossier aperti e per avviare i negoziati sulla futura partnership. Dal gennaio 2021, infine, il Regno di Elisabetta sarà a tutti gli effetti un “Paese terzo” per l’Europa, al pari di Uruguay, Mozambico o Vietnam. Nel frattempo, però, come si conviene al buon senso e agli affari, Londra e Bruxelles tratteranno per restare amici e compagni di strada perché – questo è chiaro a (quasi) tutti – le sfide da affrontare sono le stesse: economia, commercio, clima, sicurezza, demografia, energia, migrazioni; ma anche diritti di pesca, standard sociali, sanitari, fiscali.
Ci sono soprattutto di mezzo i diritti dei rispettivi cittadini, europei e britannici, da assicurare: non è infatti neppure possibile immaginare che siano ricreate barriere antistoriche ad esempio per la circolazione dei turisti o dei giovani che vorrebbero studiare di qua o di là della Manica.

Undici mesi per i nuovi trattati

12europa_unitaUnione Europea e Gran Bretagna hanno di fronte poco meno di undici mesi per trovare un accordo che, dal 1° gennaio 2021, regoli i rapporti tra le parti. La separazione, infatti, avrà conseguenze su un lungo elenco di aspetti di vita quotidiana che per quasi mezzo secolo sono parsi “scontati” e che dalla fine di quest’anno non lo saranno più.
A guidare il team della UE sarà Michel Barnier, mentre David Frost sarà a capo del gruppo di Oltremanica: toccherà a loro la resposabilità di utilizzare al meglio questo periodo di transizione durante il quale per i cittadini inglesi e per quelli dell’Unione Europea non cambierà poi molto. In campo commerciale, ad esempio, per tutto l’anno la GB resterà nel mercato unico e nell’unione doganale; idem per le decisioni che prenderà la Corte europea di Giustizia che dovranno essere accettate anche da Londra.
E dall’altra parte della Manica anche per il 2020 arriverà la quota di partecipazione a spese e investimenti dell’Unione. Da più parti si avanza l’ipotesi che il periodo di transizione dovrà essere prolungato: troppo breve per dipanare una materia così complessa: ma per andare oltre il 31 dicembre serviranno provvedimenti ad hoc di entrambe le parti entro il 30 giugno.

 

Il primo ministro inglese Boris Johnson
Il primo ministro inglese Boris Johnson

Eppure il premier Boris Johnson, che ha traghettato il suo Paese fuori dall’Unione, già minaccia sfracelli. Probabilmente dovrà rendersi conto del fatto che lui stesso ha sottoscritto un “accordo di recesso” che lo obbliga a rispettare, per tutto il periodo transitorio, le norme Ue, a rendere onore agli impegni assunti con gli altri 27 Stati dell’Unione e persino a pagare per gli impegni di bilancio già sottoscritti: ovvero 36 miliardi alle casse dell’Ue.
Soprattutto a Johnson, terminati i festeggiamenti per il divorzio e messo da parte qualche ulteriore rigurgito nazionalista (il 3 febbraio ha parlato di accordo di libero scambio con l’Ue, senza altre regole), spetteranno compiti ineludibili: riappacificare un’opinione pubblica divisa in due proprio dal Brexit; impedire il riaccendersi di divisioni e terrorismo nella fragile situazione dell’Irlanda del Nord; evitare la secessione della Scozia, che era e rimane europeista; ridare fiducia nelle istituzioni politiche del Paese, che in questi ultimi 4 anni hanno dato prova di incertezza, sbandamenti, respiro corto e parole rimangiate; assicurare che l’economia nazionale non abbia ripercussioni negative (la metà di import ed export inglesi avviene con l’Ue).

Una manifestazione dello scorso anno a Londra contro Brexit
Una manifestazione dello scorso anno a Londra contro Brexit

In sede comunitaria non dovrà invece mancare un esame di coscienza sugli errori compiuti non tanto in relazione al rapporto con Londra ma rispetto alla efficacia della propria azione e alla capacità di rispondere agli interessi dei cittadini europei. La Conferenza sul futuro dell’Europa, che dovrebbe iniziare a maggio, è stata pensata esattamente con questi sacrosanti obiettivi. Sarà un’occasione da non far naufragare.
Agli inglesi, e alla stessa Europa, toccherà poi dimostrare che talune sagge parole pronunciate in varie occasioni negli ultimi giorni – e rilanciate dai vescovi europei e britannici – non sono chiacchiere: ovvero, il Regno Unito è fuori dall’Unione europea ma resta, solidamente, in Europa. Storia, cultura, lingua, tradizioni, amicizie non si abrogano con un referendum.
E il “Canto dell’addio” di tradizione scozzese (“Auld Lang Syne”; per noi italiani “Il valzer delle candele”), intonato nella sede dell’Europarlamento, è ben più efficace con il titolo francofono: “Ce n’est qu’un au revoir”, “Non è che un arrivederci”.

Gianni Borsa