La strage al mercato nella Sarajevo assediata

Era il 5 febbraio di trent’anni fa: drammatico il bilancio delle vittime: 68 morti civili e 197 feriti. L’assedio alla capitale bosniaca e la fine della pacifica convivenza interetnica in Bosnia.

Il monumento che ricorda la strage del 1994 al mercato di Sarajevo (foto da Wikipedia / Adam Jones)

La dissoluzione della Jugoslavia, che riportò la tragedia della guerra nel Vecchio Continente dopo il 1945 produsse, secondo le stime, 140 mila vittime. Di quella serie di guerre interetniche iniziate con la secessione di Slovenia e Croazia del 1991 e terminate alla fine della guerra in Macedonia, nel 2001, Sarajevo fu uno dei luoghi simbolici.
La capitale bosniaca subì l’assedio più lungo dell’epoca moderna, dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. In quei 1.425 giorni, 554 in più dell’assedio dei nazisti a Leningrado, la città fu terreno di scontri feroci tra le forze del governo bosniaco, che aveva proclamato l’indipendenza dalla Jugoslavia, e le truppe serbo-bosniache, che volevano bloccare la nascita del nuovo stato della Bosnia ed Erzegovina e creare una Repubblica satellite della Serbia.

La capitale bosniaca, dove solo pochi anni prima si erano svolte le Olimpiadi invernali del 1984, subì l’assedio più lungo dell’epoca moderna, dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996: 1.425 giorni, 554 in più dell’assedio dei nazisti a Leningrado.
Quel giorno una granata di mortaio colpì dopo mezzogiorno l’affollato mercato centrale di Sarajevo: Markale. Le responsabilità non furono mai accertate.

Sarajevo, solo pochi anni prima, era stata la vetrina internazionale del comunismo jugoslavo con i giochi olimpici invernali del febbraio 1984. Ma era soprattutto la capitale della Bosnia narrata ne Il ponte sulla Drina o nei Racconti di Sarajevo di Ivo Andric, Nobel per la letteratura nel 1961: un crocevia culturale dove la convivenza tra musulmani, ortodossi e cattolici durava dai tempi della dominazione ottomana del 1500 e dove un terzo dei matrimoni prima della guerra erano interetnici.
Secoli di storia cancellati da un sanguinoso conflitto, in cui la scintilla che diede fuoco alle polveri fu il referendum sull’indipendenza della Bosnia Erzegovina del 29 febbraio 1992.
I sì vinsero col 64% dei voti, ma i nazionalisti serbi guidati da Radovan Karadzić non riconobbero il risultato, dopo aver boicottato la consultazione.
Contro il paventato intervento armato federale fu indetta una manifestazione pacifista il 5 aprile, che ebbe un prolungamento il giorno successivo, quando arrivò la notizia che la Comunità europea riconosceva il nuovo Stato.
Il raduno fu interrotto dagli spari sulla folla da parte dei cecchini serbi: era l’inizio dell’assedio che produsse almeno 12mila morti e oltre 50mila feriti, l’80% dei quali civili, vittime dell’azione dei paramilitari serbi, che sparavano dai palazzi dei quartieri sotto il loro controllo su qualsiasi cosa che si muovesse, e delle truppe militari serbo-bosniache che bombardavano dalle colline che circondavano la città, isolata e senza rifornimenti sufficienti di alimenti, farmaci e di qualsiasi bene di uso comune.
Di quei quattro anni di guerra uno degli eventi più drammatici fu la strage di Markale, sia per il numero di vittime (68 morti civili e 197 feriti), sia per le circostanze in cui avvenne. Mentre la diplomazia internazionale non riusciva a fermare il conflitto, tra inutili sanzioni, l’inziale disinteresse degli Stati Uniti di Bush Sr., la debolezza della Russia di Eltsin e l’incapacità europea di mettere in campo iniziative diplomatiche efficaci, una serie ravvicinata di stragi e atrocità colpirono la Bosnia.
Il 22 gennaio delle granate uccisero 6 bambini usciti dagli scantinati dei palazzi in cui la gente si rifugiava durante i bombardamenti, per giocare sulla neve appena caduta. La stessa tragica morte toccò poi a quattro bambini croati il 23 gennaio a Mostar.
Il 5 febbraio, mentre cresceva lo sgomento nell’opinione pubblica internazionale, una granata di mortaio colpì dopo mezzogiorno l’affollato mercato centrale di Sarajevo, Markale: un sito protetto da alti palazzi, e per questo ritenuto sicuro dai colpi provenienti dalle colline e che perciò continuava ad essere uno dei pochi luoghi di approvvigionamento degli scarsi viveri, oltre che di vita sociale.
La notizia sconvolse il mondo intero. I serbi declinarono ogni responsabilità nell’attacco. Una commissione di inchiesta della missione dell’Onu concluse che l’ordigno era partito da una posizione in cui passava la linea di separazione tra l’esercito bosniaco e quello serbo e che in definitiva non era possibile accertare di chi fosse l’effettiva responsabilità del massacro.

Panorama attuale di Sarajevo

Forse si trattò di una conclusione “politica”, in linea con la scelta di Boutros Ghali, l’allora segretario delle Nazioni Unite, di mantenere a tutti i costi una posizione neutrale tra le forze belligeranti, una scelta resa visibile dall’ignavia dei Caschi Blu e, in alcuni episodi, del dileggio loro riservato dai serbi.
La strage del mercato aumentò la convinzione della necessità di un’azione per “disarmare l’aggressore”, come ebbe modo di dire Giovanni Paolo II, richiamando la comunità internazionale al principio di ingerenza umanitaria.
Una convinzione che maturò con il susseguirsi delle stragi, da Tuzla, a Mostar, a Srebrenica, fino ad un secondo bombardamento di Markale, il 28 agosto 1995. Nelle settimane successive i bombardamenti della Nato contro i serbi di Bosnia costrinse questi ultimi ad arrendersi e partecipare ai negoziati di pace che portarono agli accordi di Dayton, nel novembre dello stesso anno.
Nei giorni successivi alla strage di Markale l’intellettuale italo-dalmata Enzo Bettiza dalle colonne de “La Stampa” ammoniva che “questo clima di genocidio interslavo […] si staglia oggi su uno scenario che sembra ripetere in maniera allarmante quello che diede avvio alla prima guerra mondiale” che a Sarajevo ebbe il suo formale inizio.
In un mondo che da allora non ha mai smesso di essere teatro di conflitti combattuti sul sottile crinale est-ovest e sullo spartiacque di civiltà e religioni che esso rappresenta, non si fatica a riconoscere proprio nell’assedio di Sarajevo l’ideale inizio della terza guerra mondiale a pezzi.

Davide Tondani