
Cento anni fa James Joyce lo pubblicava a Parigi. Un’opera erede dell’epica classica che aveva iniziato a scrivere a Trieste

Nel 1922 a Parigi fu pubblicato l’Ulisse, un libro-mondo che ha trasformato e rinnovato del tutto la forma romanzo non solo nella narrativa inglese. L’autore James Joyce, nato a Dublino nel 1882 quando l’Irlanda non era ancora indipendente, per sottrarsi all’ambiente culturale di una città di provincia, nel 1902 per dieci anni venne a vivere a Trieste, in un momento in cui la città mitteleuropea conosce una grande vivacità artistica e culturale, non ancora italiana, legata allo splendore di Vienna prima del tracollo dell’impero.
Per il centenario Trieste svolge conferenze, recitazioni, un percorso sulle tracce di Joyce in città. Si guadagnava il pane insegnando inglese, fra gli allievi Italo Svevo, un altro grandissimo della letteratura. I due divennero molto amici e Joyce farà poi tradurre e conoscere a Parigi La coscienza di Zeno, il capolavoro sveviano rifiutato da editori italiani incapaci di capirne la profondità e la novità. Scoppiata la guerra, Joyce ripara a Zurigo neutrale, poi vive a Parigi, di nuovo a Zurigo dove muore nel 1941. Sono anni di cambiamenti fondamentali: si scopre, in particolare con la psicologia e la psicanalisi di Freud, che l’uomo non è solo “affetto e senno” ma è anche il suo “io” inconscio, un “al di là” laico di cui non siamo consapevoli ma che si manifesta nel sogno, in messaggi simbolici, in collegamenti arbitrari di impressioni, di memorie riunite senza distinzione del tempo passato, presente e futuro.
Joyce comincia a scrivere a Trieste il romanzo dei flussi di coscienza, del monologo interiore; come da un rubinetto aperto, la parola letteraria diventa il fiume in piena delle sensazioni più profonde della parte più nascosta dell’animo umano, gli eventi si intrecciano simultanei (influenze futuriste). Libro colossale, anche sfrenato, eppure limpido e controllato, l’Ulisse è l’erede dell’epica classica, ma i personaggi sono degli antieroi, immersi in una quotidianità senza clamori, tuttavia epica. Ulisse per Joyce è l’impiegatuccio Leopold Bloom e la sua Odissea sono le peregrinazioni di un solo giorno, il 16 giugno 1904 dalle otto del mattino alle due di notte: una narrazione di 1025 pagine di un giorno uguale a tanti altri, per le vie di Dublino alienante come le città moderne e anch’essa personaggio. La straordinaria novità e complessità rendono impossibile riassumere il contenuto.
Ogni ora ha un episodio che corrisponde ad un canto dell’Odissea, ha arditi mutamenti di stile, di simboli, di registri linguistici tra cui il triestino. Qualcuno nasce, qualcuno muore, Molly la moglie adultera è il rovescio della fedelissima Penelope, Bloom incontra Dedalo-Telemaco e stringe un rapporto di cura e affetto paterno. Joyce ci porta dentro i segreti del mondo interiore dei personaggi (anche Svevo indaga di Zeno Cosini la coscienza non la biografia storica). Come Kafka con profonda umanità crea personaggi che guardano il mondo nel suo perenne mutare. Come noi soffrono i fallimenti, il disperato disorientamento esistenziale della cosiddetta “età della crisi”contemporanea.
(m.l.s.)