Due bimbi vittime innocenti di un gesto folle e ingiustificabile

Allo sconvolgente scenario di guerra, fonte di dolore per tutti, si aggiungono i cupi abissi familiari che, da parecchio, si susseguono nel nostro Paese sopprimendo vittime innocenti per odio, rabbia, immaturità, vendetta. L’ultima tragedia familiare, in ordine di tempo, è avvenuta giorni fa, a Mesenzana di Varese, dove un padre di 44 anni, la mente annebbiata dai suoi demoni, ha ucciso i due figli – Alessio e Giada, di 7 e 13 anni – e poi si è suicidato. Dov’è finita la famiglia, unica garanzia di equilibrio, di protezione, di amore, caposaldo della società?
Chi, in essa, fortunatamente, ha trovato, e ancora trova, i suddetti valori continua a crederci, ma troppe ombre si addensano su quel miscuglio di legami, spesso inaffidabili, definiti “famiglia” con gli attributi di: allargata, in crisi, di fatto liquida. Quasi un modo per dire “indecifrabile”.
Per i padri assassini, dicono gli esperti, i figli sono un oggetto attraverso cui distruggere definitivamente la donna che hanno accanto. Disposti a tutto pur di raggiungere l’obiettivo che puzza di estremo orrore. Modalità tipica di chi intende compiere un atto di totale crudeltà, per condannare un’altra persona ad una pena senza fine. Uccidere i bimbi è, infatti, una vendetta eterna, è l’odio cieco che distrugge il bene più prezioso, il sangue del proprio sangue. Tutto parte a monte, dal concetto di “proprietà e di possesso” che troppi uomini vivono nei confronti delle donne. Uomini non cresciuti, che non sanno accettare un “no” in quanto viene messa a repentaglio la prevaricazione fra i sessi.
L’amore, in questi casi, non c’entra nulla in quanto prevale solo il desiderio della punizione estrema. Ed allora la bi-genitorialità non è sempre giusta. Ci sono padri, più raramente madri, problematici e violenti ai quali i tribunali non dovrebbero affidare i minori. Ogni caso andrebbe analizzato a sé e in profondità per fermare la “mano di Caino”. Urge crescere figli con una solida, coriacea educazione all’affettività e al controllo delle emozioni, non a parole, ma con la costante testimonianza di vita, a vantaggio di una formazione che abbia come radici il rispetto, l’accoglienza, il dialogo, lungi dalla prepotenza della prevaricazione.
Nella consapevolezza che le relazioni sono scambi paritetici che escludono “possessore e dominatore”. Basta dirottare la colpa sull’ignoranza e la povertà perché l’orrore va in scena anche nelle villette con giardino. La crudeltà fra le mura domestiche parla tante lingue. Per le quali mancano ancora gli interpreti.

Ivana Fornesi