Rapporto Censis: la pandemia ha cambiato l’Italia

Crescono le spinte irrazionali ma c’è anche la riscoperta della solidarietà

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, riceve il Rapporto 2021 da Giuseppe De Rita, presidente della Fondazione Censis

L’adattamento continuato non regge più, il nostro complessivo sistema istituzionale deve ripensare se stesso: a dirlo è il Censis nel suo 55.mo Rapporto sulla situazione del Paese. Siamo di fronte a una società che potrà riprendersi più per progetto che per spontanea evoluzione”. Anche perché a fronte di una maggioranza “ragionevole e saggia” si è levata sorprendentemente “un’onda di irrazionalità”.
In oltre mezzo secolo il Censis ha analizzato e descritto la società italiana puntando molto sull’autonomia dei processi collettivi e anche stavolta rileva “tanti sprazzi di vitalità, tanta voglia di partecipazione, tante energie positive”. Ma “la pandemia, rimescolando le carte, ha costretto il Paese a porsi di fronte alle opportunità dell’accelerazione negli investimenti pubblici e privati”. E quindi “è il tempo di un cronoprogramma serio, non importa se dettato da vincoli europei”, c’è bisogno di “riforme strutturali” e di un “intervento pubblico orientato da scelte coraggiose”. Solo in questo modo sarà possibile guidare le quattro grandi transizioni che il Censis così enumera: green, digitale, demografica, del lavoro.

In oltre mezzo secolo il Censis ha descritto la società italiana. Questa volta rileva “tanti sprazzi di vitalità, tanta voglia di partecipazione, tante energie positive”. Ma “la pandemia ha costretto il Paese a porsi di fronte alle opportunità dell’accelerazione negli investimenti pubblici e privati”

Sfide epocali che richiedono come “ingrediente necessario” uno sforzo di “autocoscienza individuale e collettiva”. “Parlare con parole nuove e affrontare con serietà la fragilità del nostro tessuto sociale è quello che serve all’attuale dialettica socio-politica”, sostiene il Censis, che “nell’orizzonte della ripresa” coglie “un’inquietudine politica, timida e incerta”. Ma “ben vengano paura e incertezza del futuro, se aiuteranno nuovi modi di pensare e costruire società e istituzioni, di riconnettere tra loro tecnica e politica, vita sociale e attività statale”.
A patto che “il sistema politico non si annidi in acquietamento di pensiero”. O peggio ancora finisca in alcuni settori per offrire una sponda alle pulsioni irrazionali che hanno “infiltrato” il tessuto sociale.
Per il 5,9% degli italiani il Covid non esiste. Per il 31,4% il vaccino è un farmaco sperimentale e coloro che lo ricevono fanno da cavie. Per il 12,7% la scienza produce più danni che benefici. Ma non solo. Il 5,8% è sicuro che la Terra sia piatta e il 10% che l’uomo non sia mai sbarcato sulla Luna. Questo manifestarsi di “una irragionevole disponibilità a credere a superstizioni premoderne, pregiudizi antiscientifici, teorie infondate e speculazioni complottiste” non è però soltanto il risultato di “una distorsione legata alla pandemia”.
Il fenomeno “ha radici socio-economiche profonde”, segue “una parabola che va dal rancore al sovranismo psichico” e ora si sviluppa come “il gran rifiuto del discorso razionale, cioè degli strumenti con cui in passato abbiamo costruito il progresso e il nostro benessere”.
Per il Censis “ciò dipende dal fatto che siamo entrati nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali” e quindi “la fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte”. Un dato fra tutti: negli ultimi trent’anni di globalizzazione l’Italia è l’unico Paese dell’Ocse in cui le retribuzioni lorde annue sono diminuite: -2,9% in termini reali contro il +33,7% della Germania e il +31,1% della Francia.
La causa principale di questo andamento è nel “gioco al ribasso della domanda e dell’offerta” che con un pizzico d’ironia per le dietrologie populiste il Censis definisce “complotto contro il lavoro”. Il punto è che l’80,8% degli italiani (l’87,4% tra i giovani) non riconosce “una correlazione diretta tra l’impegno nella formazione e la garanzia di avere un lavoro stabile e adeguatamente remunerato”. Non è quindi un caso se “quasi un terzo degli occupati possiede al massimo la licenza media”.
Dunque “l’Italia affronta la grande sfida della ripresa con una grave debolezza: la scarsità di risorse umane su cui far leva”. In questo senso “il primo fattore critico è l’inverno demografico”, aggravato dalle conseguenze del Covid. Nel 2020 il numero di nati ogni mille abitanti è sceso per la prima volta sotto la soglia del 7 e con il 6,8 si è posizionato all’ultimo posto nella Ue (media 9,1).
Se “la popolazione complessiva diminuisce di anno in anno”, le previsioni stimano che la fascia attiva (15-64 anni) scenderà dall’attuale 63,8% al 60,9% nel 2030 e al 54,1% nel 2050. In compenso la pandemia ha innescato anche una riscoperta della solidarietà. Un terzo degli italiani ha partecipato a iniziative legate all’emergenza sanitaria e tra questi circa un terzo non si è limitato a raccogliere fondi ma si è impegnato in attività di volontariato. Positivo il giudizio sulla gestione dell’emergenza da parte delle istituzioni: ha dato buoni risultati per il 20,7%, è stata abbastanza adeguata per il 56,3% e solo per il 23% si è rivelata insufficiente.

Stefano De Martis