Un libro per conservare lingua, memorie e tradizioni

Panorama di Succisa: Colla e Villavecchia

Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, e anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Questa verità affermata da Cesare Pavese nel romanzo La luna e i falò è la stessa che vivono Mirna Micheli e Fiammetta Tonelli, due signore di Succisa che sono andate in città senza tagliare i legami col mondo dei padri, hanno sentito il piacevole dovere di raccogliere ogni reliquia del passato, la loro “patria” e fissarla in un libro. Con cuore partecipe hanno esplorato e fatto inchieste fra i succisani più anziani per farsi raccontare le parole, i gesti, i sentimenti, gli usi, gli oggetti di una comunità, hanno seguito come fonte anche gli appunti di don Quinto Barbieri per 25 anni parroco. Il libro ha titolo ovviamente in dialetto di Succisa Gnònca la guèra la mǒngia la tèra, è stato presentato il 12 agosto a tanta gente radunata nel campo sportivo del paese insieme al sindaco Lucia Baracchini. Fiammetta ha spiegato come è nato e arrivato a stampa, fatto per appagare un’esigenza profonda, esistenziale. Ha ricordato le veglie che univano le persone raccontando storie, prima che la tv ci rendesse appartati in appartamenti davanti al postmoderno focolare-televisore.

Una breve e gradita lezione di Lucetta Molinari di storia della lingua

Il sistema linguistico è proprio della specie umana, è strumento di ogni comunicazione e creazione artistica letteraria, grandi poeti dialettali sono Carlo Porta, Gioacchino Belli, Trilussa. Il linguaggio degli umani è un codice logico-simbolico. Sono tre le lingue in cui in tanti ci riconosciamo: la nostra prima lingua è lingua dell’essere”, è la lingua madre, il dialetto in cui torniamo ad esprimerci quando siamo in situazioni estreme di dolore o di rabbia. L’italiano è la nostra lingua nazionale in cui comunichiamo nella vita sociale e culturale.
Lingua dell’avere oggi è l’inglese così schematico e povero di lessico, ma sintetico, pragmatico e sempre più necessario nella prassi quotidiana, anche per usare il cellulare o aprire il computer. In passato nel primo censimento dell’Italia unita solo un 3% parlava ‘italiano e fino agli anni Cinquanta del secolo scorso erano ancora pochi e ancor meno scrivevano in italiano; predominava il dialetto.
I genitori vogliono che i figli, con obbligo scolastico portato nel 1962 a 14 anni, parlino italiano sempre anche in casa, per agevolarli nella scuola e il dialetto decade rapidamente. Fu soprattutto la trasmissione televisiva Lascia o raddoppia a diffondere una “koinè diàlectos”, l’italiano comune, parlato. I dialetti sono diversi anche se parlati in luoghi molto vicini, esiste una geografia linguistica. Alcuni sistemi linguistici sono vere e proprie lingue: il sardo, l’occitanico, per alcuni glottologi anche la parlata locale di Eduardo, di Totò.
Negli anni Ottanta ci fu una pallida ripresa di interesse per il dialetto nelle sue diverse inflessioni, si auspicava che i nonni lo trasmettessero ai piccoli perché il dialetto imparato da adulti dà risultati ridicoli. (m.l.s.)

Mirna ha ricordato che l’idea di raccogliere le parlate in dialetto era nata all’Unitre ma l’operazione si è arenata (commosso il ricordo del presidente Beppe Frassinelli che per tragica coincidenza è stato sepolto nello stesso giorno della presentazione del libro). Lei e Fiammetta però hanno voluto andare avanti; è nato un libro di storie di famiglie, di forza di tirare avanti – il titolo richiama gli stenti della guerra che però non distrussero la generosità di dare cibo e ospitalità anche agli sfollati. Il dialetto è la lingua di casa; come un almanacco i proverbi e i lavori di campagna sono distinti mese per mese. C’erano anche figure un po’ misteriose che “segnavano i mali”.
Giulia Besa scrittrice romano-succisana che ora vive nel paese della mamma non sapeva delle segnature, le ha studiate: ogni comunità aveva una persona, quasi sempre una donna, riconosciuta con la “virtù” di mandar via i mali del corpo e anche il disagio psichico. Era poco socevole, invocava i Santi cristiani ma ripeteva formule di sapore pagano, magico, stregonesco. Un’occasione per acquisire la segnatura, da tenere segreta e trasmessa in famiglia, era il Battesimo di un bimbo, se il prete era compiacente, lasciava che fossero benedetti oggetti, cartigli, coralli ritenuti capaci di “scacciare il male” con recita ripetuta di formule, dandogli una via di fuga da un “recinto”di parole. Ma il prete era quasi sempre ostile, veniva ingannato nascondendo gli oggetti fra le vesti del bimbo. Altra occasione era il Natale. Il dialetto non è di facile lettura, lo ha ribadito Gino Monacchia, scrittore di temi di storia locale, ancora della generazione che ha appreso il dialetto col latte materno e che ha imparato a scuola l’italiano, ne ha fatto esempi.
Lina Ferrari, la più anziana di Succisa, ha ricordato i pastori della transumanza che venivano da Massa e i carbonai, erano il loro divertimento.
Molto emblematico del cambiamento degli strumenti di comunicazione è stato il microfono in mano a Lina: non lo sapeva usare e tornava alla sua espressione diretta e in dialetto. Un proverbio africano dice che quando muore un vecchio brucia una biblioteca: Mirna e Fiammetta hanno evitato un incendio.

Maria Luisa Simoncelli