Domenica 25 aprile – IV di Pasqua
(At 4,8-12; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18)
Come fosse una supplica, una preghiera all’umanità. Ma nessuno risponde, nessuno osa raccogliere il canto innamorato del Pastore Bello delle pecore. Nessuno osa sostenere quella dichiarazione d’amore. Il silenzio dell’uomo in questa pagina di Vangelo è assordante. Perché in fondo, vorremmo che Dio si trattenesse. Vorremmo un Amore più a misura d’uomo. Troppo compromettente sapere che qualcuno è disposto a dare la vita per me, per me che per paura trattengo parole e sguardi e emozioni. Per me, che non mi sento di meritare nulla. Per me, che conosco il male che mi abita e le macerie che mi appesantiscono. Per me, uomo capace di male più di quanto immaginassi. Molto meglio un mercenario, mettere i rapporti sul piano dell’interesse, mantenere un legame solo fino a quando si intuisce un vantaggio e poi lasciarsi, liberi, e che il più forte o il più furbo o il più veloce vinca.
Invece Gesù continua lo struggente canto d’Amore del pastore innamorato. Amore di chi non vuole fare a meno di me. Entra, scende, scuote, non lascia in pace… il nostro silenzio non lo convince a tacere, nemmeno il nostro tradimento lo persuade. Canta l’Amore. Come fosse l’unica possibilità rimasta. Sapere che sarà fedele a questa follia, sapere che davvero scorrerà sangue a rendere carne il canto, sapere che questo monologo di ossessionante passione prenderà carne lacerata di croce rende tutto ancora più terribile. Taci Buon Pastore, fermati in tempo, ci viene voglia di urlare, trattaci secondo la nostra mediocrità, rientra nella logica del merito, apri gli occhi, siamo pecore stanche, sconfitte, svuotate. Non meritiamo questo amore, anzi, ed è peggio, non lo vogliamo proprio, non sappiamo cosa farcene, è troppo ingombrante e compromettente. Forse abbiamo paura che tu ci chieda di fare altrettanto. E noi non siamo pronti. E forse non lo saremo mai!
Ma il canto continua, intenso, struggente: io sono il buon pastore (…) un mercenario, al quale le pecore non appartengono, abbandona le pecore e fugge… Gesù non si stanca mai di dire che gli apparteniamo, che siamo suoi. Perché l’amore vuole prima di tutto appartenenza. Perché un pastore è buono, un uomo è bello, solo quando riesce a creare legami. Inventare contesti capace di fare sentire parte di un legame affidabile le persone che gli sono consegnate. Appartenere, fare parte, è il contrario della solitudine, del non sentirsi di nessuno. Gesù intona il suo canto d’amore per ogni cuore d’uomo, che si convinca di non arrendersi alla mediocrità, che vale la pena cercare e cercarsi, che vita vera è quella di chi si sente desiderato e amato e compreso, e che sentirsi senza nessuno che ci attende, senza nessuno che indovina i nostri silenzi, che provoca le nostre gelosie, senza nessuno che si accorge di un’ombra leggera nel fondo del nostro sguardo… Non appartenere a nessuno è già inferno.
don Alessandro Deho’