Materiali poveri della natura diventano personaggi e luoghi della Notte Santa
Ho visto moltissimi presepi in vita mia: a partire da quelli poveri e ingenui che realizzavo da bimbo con le statuine di gesso di Coreglia Antelminelli, piccolo paese della Media Valle del Serchio, divenuto famoso nel mondo per i suoi “figuristi”. Nel presepe di casa mia, che negli anni dell’infanzia era poco più di una stalla, due umide stanzucce prive di tutto, fredde e malsane, la capanna di Betlemme era realizzata con alcuni pezzi di legno (le “stiampe” che si bruciavano nella stufa), coperti di muschio raccolto in pineta, sormontati da una stella cometa di stagnola. Al riparo nella grotta-capanna stavano le statuine della sacra famiglia, con gli immancabili bue e asinello e all’esterno, sparsi qua e là con qualche pecorella che non stava mai in piedi, poche figure di pastori. Soltanto per Befana giungevano i tre magi, ed erano gli ultimi giorni prima di disfare il presepe e riporre nella carta di giornale i personaggi che avrebbero dormito per un anno intero.
Ne ho visti tanti di presepi: di cartapesta, di legno scolpito con artistiche figure del settecento vestite nelle fogge dell’epoca, che si conservano con amore nelle sacrestie; presepi napoletani, presepi meccanici, presepi futuristici, presepi scolastici di plastilina e di carta velina; perfino presepi viventi, come quelli stupendi di Pruno di Stazzema e di Equi in Lunigiana. Ne ho visti così tanti che pensavo di essere immune dalle suggestioni del Natale, dalla nostalgia di tutti quelli perduti e dal rimpianto di quelli vissuti nello spirito delle novene in cui si cantava “Tu scendi dalle stelle”.
Ma quando ho visto l’immagine che lo scultore Mimmo Biribicchi ha inviato a mia moglie tramite WhatsApp, un presepe così essenziale e puro nella sua concezione, così poetico ed evocativo che non sai se attribuirlo alla fantasia innocente di un bambino, o alla potenza intuitiva di un Picasso, allora sì che mi sono commosso! Allora sì che ho riconosciuto il significato profondo del messaggio evangelico, la buona novella annunciata nella nuda povertà di una stalla dove il dio terribile del Vecchio Testamento si faceva uomo, per riconciliarsi con l’umanità, dichiarando senza incertezze da che parte stava.
Pare che il primo presepe l’abbia allestito San Francesco d’Assisi, per dire che Cristo era nato in una stalla povera e disadorna per la volontà di testimoniare al mondo che proprio i poveri erano vicini al suo cuore e invocare un ritorno alla Chiesa povera delle origini, laddove molti secoli dopo cerca di ricondurla un altro Francesco, che è papa in Roma. Una Chiesa povera per i poveri. Ecco, i presepi di Mimmo hanno in sé il senso di una rivelazione che risiede e si identifica con le cose semplici, con la natura e le sue manifestazioni più segrete, apparentemente umili e disadorne: una radice d’albero, un frammento di vita vegetale che il tempo ha consumato, eroso, scolpito, modellato; consegnato a chi ha il dono di avvertirne la sacralità, la forma e la sostanza di una verità che rifugge da ogni ideologia, da ogni moda, da ogni suggestione contemporanea per assumere un valore simbolico, assoluto: la scarna e poetica narrazione di una Natività senza tempo, eppure punto di congiunzione fra umano e divino, verità metastorica, trascendente e immanente, terra e cielo.
Sono bastati a Mimmo pochi ingredienti minimali per una sacra rappresentazione in sé complessa e densa di significati. Piccole pietre silenziose stabiliscono fra loro un dialogo vivace, dove s’intrecciano pensieri ed emozioni, comunioni di sentimenti e di stupori. Sono pastori, pellegrini, popolani? Sono re magi d’Oriente, giunti alla grotta di Betlemme seguendo la via segnata da una stella? Siamo noi, gente confusa e disorientata, fatti pietra dal disincanto di quest’epoca tecnologica? Sono gli spiriti eterni che popolano i boschi e le radure, il greto dei fiumi dove sono stati lavati e purificati da acque perenni?
Sono ad ogni modo i personaggi di un presepe autentico, creato da un’ispirazione così intensa e da un’intuizione così immediata da farlo assurgere alla dignità di un’opera d’arte compiuta e assoluta. La nobile reliquia di un albero antico accoglie la sacra famiglia. Una stella cometa dalla scia di paglia attraversa veloce lo spazio siderale ed entra a illuminare la grotta.
Forse Gesù Bambino non è mai stato rappresentato così: nella mistica essenza della sua povertà e nella forza millenaria della sua venuta al mondo. È il Redentore, quel piccolo bimbo, quella pietruzza bianca che sta al centro del presepe di Mimmo e di tutte le nostre vite da oltre duemila anni, di noi credenti e di noi agnostici, di noi indifferenti o di noi toccati dalla sua grazia: l’unica vera grande e umile rappresentazione di una vicenda che ha attraversato indenne i tempi mantenendo intatta la sua poesia, la sua struggente bellezza, la sua universale verità.
Costantino Paolicchi