
A “La prova del cuoco” sono stati conditi con cavolo nero, acciughe, mandorle, pecorino, noci e peperoncini.
Nel 1980 Giorgio Bocca li denigrò; la garbata replica di Mario Ferrari sulla Nazione del tempo
La recente polemica sui testaroli che citiamo a parte, riporta a quella innescata nel 1980 da Giorgio Bocca, “reo” di aver denigrato, assieme a quel piatto, anche il vino della Lunigiana. Il famoso giornalista ricevette molte lettere di protesta, molte delle quali anche offensive.
Di diverso tenore – fermo, ma elegante – fu, invece, un intervento di Mario Ferrari, pubblicato sul quotidiano La Nazione del 9 giungo di quell’anno. Il Ferrari (1918-1982), filattierese, nipote del gen. Pietro, noto storico della Lunigiana, era a sua volta profondo conoscitore delle tradizioni della sua terra.
Nessuno tocchi il testarolo!
Ha fatto storcere più di un naso a Pontremoli, la ricetta con cui si è cimentata la cuoca Luisana Miseri durante una recente puntata della popolare trasmissione televisiva di Rai Uno “La prova del cuoco”. L’estrosa chef toscana ha sostituito il tradizionale condimento dei testaroli, ovvero il pesto di basilico, con un intingolo di sua creazione fatto da cavolo nero, acciughe, mandorle, pecorino, noci e peperoncini. Immediata la rivolta dei buongustai lunigianesi che, soprattutto sui social, hanno manifestato il loro disappunto alla contestata ricetta. Un’onta gastronomica da lavare che ha fatto muovere anche il sindaco Lucia Baracchini (nel duplice ruolo di dirigente scolastica del “Pacinotti”) che ha scritto alla redazione del programma chiedendo di poter dare spazio, all’interno della trasmissione, ad una dimostrazione pratica della preparazione originale e tipica del prodotto a cura dei ragazzi dell’alberghiero di Bagnone.
A fianco della sua carriera come magistrato della Corte dei Conti, coltivò anche la sua passione per il giornalismo, collaborando con diversi giornali di tiratura nazionale – Il Tirreno, Il Lavoro, Il Corriere della Sera, L’Avanti – e riviste giuridiche. Dal 1971 al 1981 collaborò con La Nazione firmando, con lo pseudonimo Agricola, oltre 500 articoli, di economia, di finanza, di politica generale e molto spesso sui problemi dell’agricoltura. Prende posizione sulle affermazioni di Bocca, rendendo conto del contesto sociale in cui i testaroli hanno trovato la loro origine.
“Esistono solo due categorie di persone – scrive – capaci di apprezzare questo cibo preistorico: i povri e i siori… I testaroli furono inventati in tempi remotissimi, quando i siori ancora non esistevano e tutti erano povri. In Valdimagra… il grano è sempre stato scarso e la farina preziosa. Per riempire la pancia alla famiglia, la madre (mà, dialetto) doveva ottenere grandi volumi di cibo usando poca farina. I testaroli sono la risposta a questo problema”.
Descrive la preparazione di questa “specie di rozza crêpe morbida per la molta umidità che ancora contiene”, poi spiega che, tagliata a quadri, “la si inzuppa (la’s tors) nell’acqua bollente senza però farvela cuocere, visto che è già cotta nei testi”.
Dà anche conto di come la si condisce: “con qualcosa di piccante: aglio e basilico tritati con pecorino vecchio grattugiato e olio acerbo, verde e che pizzichi la lingua”. “I povri – continua – una volta [li] apprezzavano perché riempivano bene il ventre: ‘A son propi bel gonfi!…’ sono proprio ben pieno, sbuffava soddisfatto chi li aveva mangiati, leccandosi le labbra ancora unte. L’apprezzamento dei siori ha radici più profonde e sottili… Essi sanno che olio e formaggio devono avere ciascuno quel particolare sapore che solo in quelle certe località si può ottenere… gradiscono un piatto così semplice che non occorre essere latifondisti per poter dire, mangiandolo: ‘di comprato c’è soltanto il sale’. Basta infatti ben poca terra per cavarne tutto l’occorrente, dalle fascine all’olio, dalla farina all’aglio ed al basilico”.
Interessante anche lo squarcio socio-economico, con l’indicazione del sior come “padrone di un poderetto o due mandatogli avanti dal pensionato dell’arsenale col figlio ‘in ferrovia’ che dà una mano quando non è di turno ai treni”.
Questo personaggio “si sente un padreterno. ‘’Me, per fame non mi prendono’ dice a se stesso anche se, in fondo, sa che non è vero”. L’articolo di Mario Ferrari si conclude accennando a “cose un po’ più elevate”. Parla, così della Lunigiana: “di questa incredibile terra e dei suoi paesi che Dante ci dice ‘per tutto il mondo… palesi”, di Moroello Malaspina di Giovagallo, degli indigeni pagani che “erano una minaccia ancora nell’VIII secolo dopo Cristo”, del feudalesimo che qui “è durato sino ai tempi di Napoleone”.
“Una terra dove il merciaio ambulante è anche contadino ed il contadino anche elettricista o arsenalotto a Spezia, il professionista è anche imprenditore agrario, è magistrato, è anche storico locale o scrittore”. “Naturalmente – conclude – chi è nato altrove ed ha una diversa eredità culturale ha il diritto di rifiutare sia i testaroli sia l’agretto di Valdimagra…. Il lunigianese… lì per lì ci resterà male. Ma poi capirà e si stringerà nelle spalle, mormorando quel “a’m n’an fot” (“fut” se è pontremolese) che, tradotto in buon italiano, significa, a un dipresso, ‘pazienza, ma non me ne importa’”.